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La fine dell'impunità
I diritti umani nell’Argentina di Néstor Kirchner

La crisi politica e finanziaria esplosa nel dicembre 2001 e che ha trascinato verso il collasso l’Argentina, ha rappresentato il drammatico epilogo di un lungo periodo di gestione del potere caratterizzato dall’applicazione del neo-liberismo imposto dal cosiddetto “Washington Consensus”, le cui radici risalgono alla approvazione della “Ley de Convertibilidad” (1991), elaborata dall’allora Ministro Domingo Cavallo del governo del presidente Carlos Menem. Oggi, possiamo dire che gli anni Novanta hanno rappresentato una “oportunidad perdida” per il subcontinente, e l’Argentina un caso di “desarrollo fallido”. In sintesi, “le politiche nazionali hanno fatto dell’Argentina un’opportuna per il mondo, prima che per il paese. L’accelerato ed oscuro processo di privatizzazioni, l’apertura illimitata dell’economia, la debolezza degli organismi regolatori dello Stato e la concomitante destrutturazione dell’apparato produttivo che risultò da queste politiche, con la sua sequela di distruzione dell’occupazione, hanno lasciato la società alle intemperie”.

Dopo diverse vicissitudini e la guida del Paese affidata al Senatore Eduardo Duhalde, alle elezioni presidenziali dello scorso marzo 2003 (successivamente alla ridicola rinuncia di Menem a presentarsi al ballottaggio) fu nominato vincitore il governatore della Provincia di Santa Cruz, Néstor Kirchner, il cui potere fu pienamente legittimo ab initio in quanto le elezioni si erano svolte nel rispetto della legalità.

I risultati ottenuti in campo politico, economico e civile, pur tra mille difficoltà, negli ultimi mesi dal governo del Presidente sono significativi di un tentativo ben determinato di cambiamento non solo di politica interna, ma anche di definizione di una nuova collocazione internazionale dell’Argentina nell’ambito del Mercosur e dell’America Latina nel suo complesso, se pensiamo anche alla linea politica progressista adottata in Brasile dal Presidente Luiz Iñacio Lula da Silva. A vent’anni dal ritorno della democrazia, dopo la tragica esperienza della dittatura militare (1976-1983) con i suoi 30.000 desaparecidos, l’Argentina sembra stia vivendo grazie al “kirchnerismo” -strategia politica trasversale di difficile definizione che rappresenta l’incontro tra il justicialismo inovador e la izquierda pragmática per la creazione di una nuova alleanza politico-sociale- una rinascita politica, economica, culturale ed anche morale. Ci troviamo di fronte a quello che Juan Carlos Portantiero -uno dei maggiori intellettuali socialisti latinoamericani del Novecento- invocava pochissimi anni fa, ovvero il recupero del “tiempo de la política”, concepito “progettazione strategica e come volontà di potere, come costruzione di consensi ma anche come confronto decisivo con gli interessi di coloro che si oppongono ai cambiamenti, articolando la mobilitazione della società con la capacità dello Stato, [questo] potrebbe aprire un cammino verso la speranza”.

I diritti umani
In questo filone si colloca la difesa dei derechos humanos e l’abolizione, fra l’altro, della “Ley de Migraciones” emanata negli anni Sessanta dalla giunta militare del generale Juan Carlos Onganía, che, in nome della “lucha anticomunista” sancita negli anni Cinquanta dalla Doctrina de la Seguridad Nacional, avviò la Revolución Argentina, la quale per rafforzare il cosiddetto “Potencial Humano”, si preoccupò di delimitare accuratamente “cuán morales, blancos, anticomunistas y limpios” fossero gli immigrati che, a suo giudizio, erano “in condizioni di abitare il suolo argentino”. Successivamente, López Rega diresse, con l’appoggio delle Forze Armate, la Alianza Anticomunista Argentina (nota come la Triple A) avviando la violenta repressione contro i simpatizzanti e i militanti di sinistra che produsse 5.000 prigionieri politici, in maggioranza senza processo legale, persone scomparse, sequestri e assassini, illegalità di partiti politici, ecc.

A Roma, nel frattempo, si era appena conclusa la terza e ultima Sessione del Tribunale Russell II sulla repressione in America Latina (10-17 gennaio 1976) nella quale Lelio Basso, parlando della situazione dei paesi latinoamericani, aveva ammonito: “E’ stata una spinta violenta alla presa di coscienza del pericolo che incombe oggi su tutta l’umanità. Il cancro si è formato lentamente, in silenzio, ha proliferato senza dar cenno di esistenza e ora che ne abbiamo davanti la radiografia completa siamo tentati di dire: “è troppo tardi!”. La collusione tra i centri di potere politico, che è alla radice del dramma che devasta tutto il continente latinoamericano, ha prodotto dei mostri che minacciano anche noi. Due anni fa, alla prima sessione, udimmo la voce dei torturati; un anno fa, alla seconda, ascoltammo la denuncia del sistema economico dipendente che è alla radice dei sistemi repressivi, e i misfatti delle società multinazionali furono messi sotto accusa anche da relatori studiosi e testimoni di tendenze politiche moderate; nei giorni scorsi, alla terza sessione, sono stati rivelati i meccanismi di funzionamento del sistema imperialista, con tutte le loro incredibili ramificazioni. Non si può dire “non sapevo”; ma neppure si può dire “è troppo tardi”. Si denuncia per risvegliare le coscienze, per scuotere l’opinione pubblica delle società consumistiche, si condanna moralmente perché si ha fiducia nella capacità dei popoli di assumere le conseguenze del verdetto; si lavora perché, al di là di ogni inconsapevolezza sgomento o pigrizia, si ha fiducia nell’uomo. In questa chiave e solo da questo punto di vista si può guardare l’opera del Tribunale Russell per l’America Latina, ora che il suo compito è terminato e nuove e diverse iniziative ne prenderanno il posto”.

La debole democrazia argentina di Isabelita Perón venne definitivamente abbattuta dai militari che, invocando lo “stato di necessità”, fecero il colpo di stato il 24 marzo 1976 instaurando immediatamente l’Estado terrorista che, spiega José M. Simonetti, non fu “un evento casuale, ma il prodotto e la combinazione di forze che già erano presenti nella società”, ed avviarono il Proceso de Reorganización Nacional che puntava a “restituire alla Nazione moralità, efficienza e immagine, sradicare la sovversione; promuovere un equilibrato sviluppo economico”. Sin a partire dalla prima Junta militar capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla, e nel segno della “lucha anticomunista”, si avviò la “guerra antisubversiva”, combinazione dei principi della sicurezza nazionale adottati dalle Forze Armate e dello sviluppo di un apparato paramilitare repressivo, segreto ed autonomo, all’interno dello Stato autoritario. Per garantire il successo della “guerra sucia” vennero aperti in tutto il paese circa trecentoquaranta dei tristemente noti Centros Clandestinos de Detención (CCD) dove passarono, dal 1976 al 1982, progressivamente i 30.000 desaparecidos: “La desaparición -spiega il famoso rapporto Nunca Más della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas (1985) presieduta da Ernesto Sábato- cominciava con l’ingresso a questi centri mediante la soppressione di tutti i legami con l’esterno. Da qui la denominazione di “Pozos” data a molti di questi luoghi nel gergo repressivo. Non si trattava solamente della privazione della libertà non comunicata ufficialmente, ma di una sinistra modalità di prigionia, che traslava la vita quotidiana ai confini più sotterranei della ferocia e della pazzia”.

Contro questo illegale e repressivo regime si opposero, sin dal 30 aprile 1977, una cinquantina di madri che si rivolsero al generale Videla per avere notizie sui loro figli scomparsi. Da quel giorno, quelle che la stampa di regime definiva le “locas de Palza de Mayo”, divennero le Madres de Plaza de Mayo, ossia il movimento morale più significativo di quegli anni e i “soggetti politici” che si opponevano fermamene alla dittatura e che sfidavano apertamente la legge marziale. In Italia, invece, la prima istituzione ad occuparsi del fenomeno dei desaparecidos che stava lentamente emergendo alla luce di testimonianze coraggiose e attentamente valutate provenienti dall’Argentina fu il Tribunale Permanente dei Popoli -organo della Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli- che denunciò, nel maggio del 1980, presso la sede delle Nazioni Unite di Ginevra, la eliminazione dello Stato di diritto e la violazione dei diritti fondamentali della persona.

La fine dell’impunità
Dopo tanti, troppi anni, in cui la questione dei diritti umani ha subito, da parte dei governi che si sono succeduti, una inaccettabile battuta d’arresto, finalmente il governo del Presidente Kirchner ha rilanciato vigorosamente questo tema per affrontare quello più generale del recupero completo della democrazia sostanziale. Sotto questo aspetto, la riforma che sicuramente emerge su tutte quelle finora adottate, e che rappresenta uno spartiacque non solo nella recente storia argentina, ma dell’America Latina tout court, violentata per decenni a partire dalla metà degli anni Sessanta dalle giunte militari, è l’abolizione della “Ley de Obediencia Debida” (1987) e “Punto Final” (1986) che sostanzialmente sancivano l’impunità dei militari, e che furono entrambe approvate durante la delicata “transición a la democracia” dal primo governo democratico di Raúl Alfonsín, e confermate dal Presidente Menem, che anzi decretò l’indulto a favore dei militari accusati di violazioni dei diritti umani, ed anche il Governo De la Rúa con un decreto impedì l’estradizione -richiesta dal giudice spagnolo Baltazar Garzón- dei militari condannati in virtù del “principio di territorialità” e nel “rispetto della sovranità”. Queste decisioni politiche furono adottate nonostante dalle alte cariche militari mai venne proclamata la loro responsabilità dei crimini commessi, ma solo il generale Martín Balza, comandante dell’Esercito durante il menemismo, nel 1995 -dodici anni dopo la fine della dittatura- fece l’autocritica militare più profonda del secolo passato: “L’Esercito non ha saputo affrontare tramite la legge il folle terrorismo [...]. nessuno è obbligato a compiere un ordine immorale [...]. Delinque chi, per raggiungere un fine che ritiene giusto, impiega mezzi immorali”.

Ma tornando ad oggi, e alla difesa costituzionale dei diritti umani da parte del governo del Presidente Kirchner, lo scorso luglio in occasione dell’annullamento del decreto di De la Rúa, Kirchner ricordando che la sua “antica posizione su questo tema è stata di giustizia e memoria, e che sempre mi sono schierato contro l’indulto e le leggi di Obediencia Debida e Punto Final”, sottolineò la necessità di “riprendere la migliore tradizione di rispetto dei diritti umani e di equilibrato gioco della divisione repubblicana dei poteri”. Proprio in questo contesto di rilancio delle grandi questioni morali e civili, si colloca anche la sostituzione dei giudici della Corte Suprema, tradizionale feudo dell’oligarchia menemista. Non sorprende allora che la Camera dei Deputati -grazie ai voti del Partido Justicialista (PJ), del Frente País Solidario (Frepaso), dell’Argentina por una República de Iguales (ARI) e della Izquierda Unida- con una decisione storica abbia annullato, lo scorso agosto, anche quelle leggi (Obediencia Debida e Punto Final) che garantivano l’impunità ai militari coinvolti in una repressione spietata e indiscriminata. Una decisione che è stata immediatamente elogiata dalle numerose associazioni dei parenti sopravvissuti dei desaparecidos, che da anni lottano per raggiungere la verità ed ottenere giustizia. Come ha dichiarato Rosa Roisinblit (vice-presidente della Asociación Abuelas de Plaza de Mayo), “vediamo che il Governo ha assunto iniziative adeguate, aprendo una speranza non solo per gli organismi dei diritti umani ma per il paese in generale, per tutta la società argentina. [...]. in questo modo, i genocidi avranno il privilegio di essere giudicati, diritto che invece non ebbero i nostri figli”.

Poi il 4 marzo 2005 la convincente dichiarazione dell’ammiraglio Jorge Godoy, comandante della Armada, circa le responsabilità dei militari del suo corpo: “Oggi sappiamo, per l’azione della giustizia, che quel luogo [la Esma] fu utilizzato per l’esecuzione di fatti qualificati come aberranti e offensivi della dignità umana, dell’etica e della legge, per giungere a trasformarsi in un simbolo di barbarie e irrazionalità. […] Fatti che niente e nessuno potranno giustificare, anche nelle gravissime circostanze storiche in cui si verificarono.” Si tratta della prima volta in cui un comandante delle Forze Armate non associa la “reconciliación” con la “impunidad”, ed è necessario precisare che questa autocritica -caso rarissimo in America Latina- non sarebbe stata possibile senza l’infaticabile lotta degli organismi dei diritti umani e se il Potere Esecutivo, dal primo giorno del suo mandato, non avesse condotto una rigorosa politica nei confronti delle Forze Armate -mai avvenuta dalla conclusione della dittatura- con l’intento di trasformarle in un corpo organico della democratica società argentina. Come ha giustamente specificato il Ministro dell’Interno Aníbal Fernández, “le Forze Armate devono subordinare le loro dichiarazioni e i loro atti al loro comandante in capo, che è il Presidente della Nazione. Se le Forze Armate avessero agito nel rispetto della legge, invece che nell’illegalità, gli argentini non avrebbero trascorso anni di dolore e di rancore”.

A dimostrazione della ferma volontà di proseguire su questa strada, il Presidente Kirchner ha trasformato la Escuela de Mecánica de la Armada (Esma), nella quale passarono circa 4.700 desaparecidos, in un Museo della Memoria per non dimenticare i crimini della dittatura militare e per promuovere i diritti umani. Il solenne atto si è tenuto il 24 marzo -ventottesimo anniversario del golpe- durante il quale Kirchner ha chiesto perdono da parte dello Stato “per la vergogna di aver taciuto durante 20 anni di democrazia su simili atrocità”. In altre parole, grazie a Kirchner la società argentina è tornata a fare definitivamente i conti con il passato per guardare finalmente al futuro.





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