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I desaparecidos e l’Italia |
A 30 anni dal golpe del generale Rafael Videla (il 24 marzo del 1976) – il più silenzioso ma anche il più sanguinario mai realizzato in America Latina – continuano in Argentina ed in vari paesi europei i processi giudiziari contro i responsabili di incredibili violazioni dei diritti umani e del tragico bilancio di 30 mila desaparecidos di cui, forse non tutti lo sanno, almeno un migliaio italiani. Una forte presenza di connazionali che trova giustificazione nelle storiche relazioni fra i due paesi e nel costante flusso migratorio che dall’Italia ebbe come destino Buenos Aires a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, e che si concluse con l’ultima importante ondata di piemontesi, siciliani e calabresi del secondo dopoguerra.
Italiani e militari
I primi emigranti si distribuirono nei vasti campi del centro e del sud del paese, mentre gli ultimi, quelli di 50 anni fa, si impegnarono di più nei settori industriali, nella costruzione e anche nelle professioni scientifiche. Molti furono medici e molti perfino scelsero la carriera militare, al punto che alla vigilia del golpe c’era nei ranghi delle forze armate, per ammissione ufficiale, una presenza del 70 per cento di italiani o di origine italiana.
All’inizio, quando nessuno sospettava neppure lontanamente l’esistenza di un piano scientifico e silenzioso di sterminio dell’opposizione (e non solo dei militanti di movimenti che avevano preso le armi come i Montoneros e l’Erp), la presenza di tanti nomi italiani fra generali e ammiragli (Roberto Viola, Armando Lambruschini, Roberto Galtieri, Armando Lambruschini e Omar Graffigna) aveva suscitato più che altro curiosità negli ambienti politici e nell’opinione pubblica italiana.
L’errore commesso dal generale Augusto Pinochet in Cile di dare grande pubblicità agli arresti e alla repressione degli oppositori politici, era stato corretto con grande sagacia dal dittatore argentino Jorge Rafael Videla e dagli altri membri della Giunta, che coniugavano brutalità e discrezione negli arresti di massa e selettivi, e che soprattutto non fornivano indicazione alcuna sulla sorte delle persone che venivano prelevate da casa o in strada con blitz di vere e proprie squadracce, le più celebri delle quali erano i Grupos de tarea (Gruppi operativi) dipendenti dalla scuola di meccanica della marina (Esma).
Silenzio
La stampa, ovviamente, era totalmente imbavagliata, e le rappresentanze diplomatiche si limitavano alla minore attività possibile. In questo quadro si distinse l’Ambasciata d’Italia, guidata in quell’epoca da Enrico Carrara, che come misura cautelativa fece blindare la porta d’ingresso della Calle Billinghurst per impedire che estranei riuscissero ad introdursi all’interno dell’edificio, come era successo dopo l’11 set-tembre 1973 in Cile.
Ecco come il giornalista Riccardo Benozzo riferisce nel libro”Il silenzio infranto - Il dramma dei desaparecidos italiani in Argentina” (di Vera Jarach e Carla Tallone, editore Zamorani di Torino) le parole di Carrara ai membri della prima delegazione di sindacalisti giunti a Buenos Aires dopo il golpe: “Proprio qui, davanti all’ambasciata, c’era sempre un codazzo di gente, in genere parenti di oppositori politici che facevano un sacco di confusione per presentarci copie di ricorsi in tribunale o richieste di intervento. Non se ne poteva più. Un giorno ho chiamato la polizia e guardate adesso, tutto in ordine, nella strada si può circolare, tutto è di nuovo a posto. E questo è quanto è successo in questa strada, ma è solo un esempio di come in tutta l’Argentina i militari stanno rimettendo le cose in ordine”.
Se è vero che gli stessi familiari dei giovani arrestati e scomparsi nel nulla non si rendevano completamente conto della gravità della situazione, va detto che le autorità diplomatiche italiane si distinsero per una passività impressionante, mantenendo un profilo bassissimo ed intervenendo solo in caso di forti pressioni esterne. E di fronte alla dedizione di vari esponenti della comunità italiana in Argentina, primo fra tutti il sindacalista Filippo Di Benedetto, padre Enzo Giustozzi e vari sacerdoti scalabriniani, pochissimi esempi possono essere citati di diplomatici che si fecero carico dei problemi esistenti. Fra di essi, il console Enrico Calamai, che ha ricordato la sua opera in due libri, e Bernardino Osio, impegnato in un difficile lavoro in ambasciata.
Il dramma nel dramma, cioè la forte presenza di persone con passaporto italiano nella lunga lista dei desaparecidos, esplose il 31 ottobre 1982, quando il Corriere della Sera pubblicò una lista di 297 italiani (per lo più giovani) scomparsi nel nulla. La rivelazione suscitò una ondata di reazioni ed una immediata messa a punto imbarazzata del sottosegretario agli Esteri Raffaele Costa: “L’elenco degli italiani scomparsi in Argentina è frutto (...) di informazioni che si riuscivano a raccogliere con grandi difficoltà e che erano relative, anche, a passi compiuti, decine di volte, presso le autorità argentine”.
“Che vi fosse (sull’elenco) – aggiunse Costa – una certa riservatezza anche se non un segreto assoluto e di principio discende dal fatto che era in gioco la vita di centinaia di persone, talune delle quali letteralmente scomparse nel nulla e di cui si conosceva il dissenso verso la dittatura militare”.
Ma nessuno forse aveva fatto abbastanza attenzione che per il silenzio esisteva una ragione e non di secondaria importanza: due dei protagonisti della dittatura, l’ammiraglio Emilio Massera, membro della prima Giunta militare, e il generale Carlos Guillermo Suarez Mason, comandante della prima regione (quella di Buenos Aires), erano affiliati alla P2 di Licio Gelli. Lo fece capire in una audizione alla commissione P2 della camera il 16 novembre 1982 il ministro degli Esteri Arnaldo Forlani che ricordò di avere incaricato il sottosegretario Franco Foschi di occuparsi della questione dei desaparecidos: “Ma egli non mi parlò mai di essere in contatto con Gelli, e neanche l’allora Presidente del consiglio Andreotti mi informò che utilizzava il capo massone per ritrovare gli italiani spariti in Argentina, anche se sapevo che Andreotti si occupava assiduamente di quest’ultima questione”.
I processi per i desaparecidos italiani
A questo punto, comunque, non potendosi più nascondere dietro un dito, le autorità italiane fecero presentare al Consolato generale una denuncia al Tribunale di Buenos Aires per 617 casi di sequestro ed un habeas corpus (una figura con cui si chiedeva la presentazione dell’imputato davanti ad un giudice) per l’assenza di 45 cittadini, nati in Italia. Contemporaneamente, il ministro della giustizia Clelio Darida, basandosi sull’articolo 8 del codice penale italiano dava il via libera all’inchiesta italiana, affidata poi al pm Antonio Marini che inaugurò il suo lavoro ascoltando Maria Ferraro in Bettanìn, madre del deputato Leonardo Bettanìn ucciso nel 1977, ed essa stessa sequestrata e torturata dai militari.
Con Marini operò il gip Renato Squillante, assurto alle cronache negli anni ’90 per le accuse rivoltegli da Stefania Ariosto di complicità in atti illeciti a favore delle imprese di Silvio Berlusconi, realizzati in accordo con Cesare Previti.
Nell’aprile 1983, con uno spettacolare colpo d’ali, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ricollocò l’Italia nella posizione che le competeva. Quasi alla fine del mese, infatti, la Giunta pubblicó il cosiddetto “Documento finale” in cui si sosteneva che tutti i desaparecidos dovevano essere considerati morti. Il capo dello stato scrisse allora di suo pugno un vibrante telegramma: “L’agghiacciante cinismo del comunicato con il quale si annuncia la morte di tutti i cittadini argentini e stranieri scomparsi in Argentina nei tragici anni trascorsi sotto la dittatura militare, colloca i responsabili fuori dell’umanità civile. Esprimo lo sdegno e la protesta mia e del popolo italiano in nome degli elementari diritti umani, così crudelmente scherniti e calpestati”.
“Quella presa di posizione ci riempì di orgoglio – ricorda Lita Boitano, madre di due ragazzi italiani scomparsi e responsabile dell’associazione dei familiari dei detenuti desaparecidos – ma ancora per molti anni avremmo dovuto attendere con pazienza che l’Italia ottenesse risultati in una battaglia tesa ad ottenere giustizia per i suoi cittadini cosí brutalmente eliminati”. La Boitano aveva ogni ragione, perché l’istruttoria di Marini si trascinò per anni, fino alla sorprendente richiesta di archiviazione presentata dallo stesso giudice fra Natale e Capodanno del 1995.
Per fortuna ad ostacolare questo proposito ci pensarono sia il Gip Claudio D’Angelo, sia il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick che firmò nell’agosto 1996 la prosecuzione delle indagini. “Ci salvammo veramente in corner – ricorda ancora la Boitano – ma da quel momento la strada è sempre stata in discesa. Ricevemmo la notizia dell’istruzione del processo contro i generali Suarez Mason e Santiago Omar Riveros e gli altri ufficiali per otto casi di italiani desaparecidos di cui vi erano prove certe, fra cui quelli della figlia e del nipote di Estela Carlotto, presidente delle Nonne di Plaza de Mayo. E poi la decisione di Romano Prodi di costituirsi nel processo come parte civile”.
Dopo le pesanti condanne dei sette imputati, tutti militari argentini, stabilita dal Presidente della seconda Corte d’assise, Mario Lucio D’Andria, e confermata in appello nel 2003, restano ancora due processi aperti presso il Tribunale di Roma.
Uno, conosciuto come ‘Il processo della ESMA’, è in mano al Gup Marco Mancinetti e riguarda la sorte di tre cittadini italiani Angela Aieta e Susanna e Giovanni Pegoraro. Per essi il pm Giovanni Caporale ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex ammiraglio Emilio Massera (che sembra sia ormai fuori di senno a Buenos Aires) e di un gruppo di ex ufficiali della Esma membri del famigerato “Grupo de tareas” 3.3.2., il principale dei quali é Alfredo Astiz, l’“Angelo biondo” traditore di tante Madri di Plaza de Mayo. Ed anche in questo caso, il governo ha annunciato il 31 maggio scorso di essersi costituito parte civile.
Il secondo, per le vittime italiane del cosiddetto Piano Condor (l’accordo delle polizie delle dittature sudamericane per arrestare e trasferire gli oppositori) è in mano da oltre cinque anni al pm Giancarlo Capaldo che però non è ancora arrivato a una conclusione delle indagini.
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