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United Colors of Benetton : i colori della menzogna |
Nel nostro diritto positivo, la terra è solo un bene immobile, che può essere oggetto di proprietà privata o pubblica. Nel pensiero e nelle società tradizionali, il suo status obbedisce ad altre concezioni, la terra non è solo sacralizzata, ma anche umanizzata e socializzata. Più in generale, i beni formano una categoria giuridica sui generis solo nelle società moderne, altrove, sono associati allo status giuridico dei gruppi che li producono, li scambiano o li consumano, e rispondono dunque a regole diverse. L’esistenza di legami che uniscono la terra al mondo invisibile e, nel mondo visibile, all’uomo e ai gruppi sociali, impedisce l’emergere, a noi familiare, del concetto di diritto reale, frutto della distinzione tra ius in re e ius ad personam: un diritto non può avere a oggetto direttamente una cosa, tanto più che la terra non può essere ridotta a una cosa. La classificazione della terra come immobile si accompagna dunque, nella nostra tradizione, a una netta preferenza attribuita all’individuo rispetto al gruppo, mentre nelle società tradizionali è già un’incongruenza definirla come immobile: lì la terra non è né mobile né immobile, ma gioca un ruolo diverso (Norbert Rouland, Antropologia giuridica, Giuffrè editore, Milano 1992, in particolare il capitolo: Status sociali e rapporti fondiari nelle società tradizionali e moderne).
Nella nostra tradizione civilistica la terra è più di una cosa materiale: è un bene, cioè una cosa che possiede un valore pecuniario ed è suscettibile di appropriazione; ovviamente l’importanza attribuita al valore venale si accompagna all’individualizzazione e all’esclusivismo del diritto di proprietà. Anche i sistemi tradizionali non disconoscono il valore economico dei fondi, ma non è così determinante come nel modello di produzione del capitalismo mercantile, in cui il valore di scambio è monetizzato nell’ambito di un mercato globale dominato dall’ideologia liberista. I sistemi tradizionali inoltre, mediante il principio di esointrasmissibilità della terra, insistono sul carattere extra-commerciale: i diritti sulla terra possono circolare solo tra i membri di uno stesso gruppo; valorizzando in questo modo lo status socio-politico dei soggetti di diritto. La terra dunque, come supporto e luogo di attualizzazione dei rapporti sociali. C. Lévi-Strauss ha visto chiaramente che la proprietà non può essere analizzata come rapporto oggettivo tra un soggetto e un oggetto di diritto: l’oggetto acquista o perde valore – ed è dunque sottoposto a differenti procedure giuridiche di qualificazione, di utilizzazione, o di trasferimento – essenzialmente in funzione dei rapporti che gli individui intrattengono tra di loro. In altri termini, la proprietà è largamente condizionata dai rapporti e dalla struttura sociale, e questo in ogni società (C. Lévi Strass, Les Structures èlèmentaire de la parentè, Paris, Mounton, 1967, pag.100).
Queste considerazioni preliminari, sono necessarie per la questione di cui ci si vuole occupare in questa riflessione che ha come protagonisti da una parte, la famiglia Benetton, titolare della Edizione Holding spa (capofila di società come Autogrill, Autostrade, Grandi Stazioni e lo stesso Benetton Group), dall'altra, due rappresentanti del popolo indio Mapuche, antica comunità della Patagonia. Nonostante le campagne pubblicitarie di sensibilizzazione e l'immagine di una grande e felice famiglia piena di maglioni colorati, il gruppo Benetton sta mostrando il suo vero volto, accanendosi contro l’intera popolazione Mapuche, al fine di espropriarne i terreni. In Patagonia, ora la chiamano “United Colours of Land Grab”, gli ArraffaTerra. La storia inizia nel 1991, quando i fratelli trevigiani si espandono in Argentina con una mossa eclatante: l'acquisto di tutte le proprietà della Compañía de Tierras del Sud Argentino S.A. Il costo dell'operazione è di 50 milioni di dollari. I Benetton diventano proprietari di 900 mila ettari di terra, dove allevano 16 mila bovini da macellazione, 260 mila pecore e montoni da cui ricavano oltre 1 milione di chili di lana che vengono esportati ogni anno in Europa, senza dimenticare altri 80 milioni di dollari investiti dalla United Colors in varie attività.
Gli altri, meno noti, protagonisti di questa storia sono invece Atilio Curiñanco e Rosa Nahuelquir, mapuche con alle spalle vite e destini tutt’ altro che a colori. Atilio per 15 anni ha lavorato in una fabbrica di congelamento carni, mentre Rosa era un’operaia nel settore tessile fino al febbraio del 2002 quando la sua ditta ha chiuso. I 300 pesos al mese di Atilio non bastavano più, così la famiglia decise di rivolgersi all' “Istituto autarchico di colonizzazione", chiedendo se fosse libero un lotto di 525 ettari chiamato Santa Rosa. Gli fu detto a voce che il terreno era demaniale e inutilizzato, dunque potevano occuparlo.
Per sicurezza, i coniugi Curiñanco, il 23 agosto 2002 informarono delle loro intenzioni anche il commissariato di Esquel. Dopodichè si trasferirono sul lotto Santa Rosa, dove cominciarono il loro progetto di vita; arando la terra, creando un sistema di irrigazione, piantando ortaggi, frutta, allevando animali. Un lavoro duro fatto di costanza e sudore quotidiano; fino a quando, il 2 ottobre 2003, alla porta dei Curiñanco si sono presentati degli agenti di polizia che li hanno sfrattati, sequestrando tutti i loro attrezzi e portando via anche una coppia di buoi. L’ordine di sgombero era stato emesso a seguito di una denuncia della Compañía de Tierras nei confronti dei coniugi mapuche. Le accuse erano due: avere occupato un terreno che in realtà apparteneva alla Compañía, e averlo fatto in modo violento e occulto, abbattendo il recinto e approfittando dell'oscurità. Ipotesi che i coniugi Curiñanco hanno sempre rigettato, ma che sono apparse persuasive al giudice delle indagini preliminari José Oscar Colabelli. La causa ha fatto la sua strada, lasciando i Curiñanco disoccupati e senza terra, con un procedimento penale e uno civile intentato dai Benetton. I coniugi sono stati assolti solo dall'accusa di usurpazione del territorio, dal momento che non sono risultati atti violenti o occulti. Allo stesso tempo hanno dovuto restituire il lotto Santa Rosa alla Compañía, in quanto il giudice ha ritenuto attendibili le fotocopie autenticate degli atti di proprietà presentati in aula. "Bene così", hanno commentato i portavoce della Compañía: "Ci interessava ribadire il diritto alla proprietà, e ci siamo riusciti. Quanto all'aspetto penale, prima del processo abbiamo avvicinato la famiglia mapuche proponendo un accordo. Se ci restituivano il lotto Santa Rosa avremmo ritirato la denuncia, ma non ne hanno voluto sapere".
Gustavo Manuel Macayo, avvocato dei Curiñanco: "Ancora una volta non sono stati rispettati i diritti delle popolazioni indigene della Patagonia. E ancora una volta la controparte è costituita dalla famiglia Benetton, la quale peraltro non ha diritto di occupare quelle terre". L'avvocato dei Curiñanco contesta infatti l'atto con cui a fine Ottocento lo Stato argentino donò a dieci latifondisti inglesi quelle terre che sarebbero poi finite in mano alla “United Colors”. L’allora presidente argentino José Félix Uriburu, consegnò a ciascuno di quei signori circa 90 ettari di terra in Patagonia violando le leggi del tempo, non si rivolse infatti all'ufficio notarile generale del governo e non rispettò il limite massimo previsto per le donazioni di 625 ettari.
Dunque il problema non riguarda più solo la storia del lotto di Santa Rosa, i Curiñanco e i Benetton ma si tratta di un'ingiustizia nazionale. Ovviamente la Compañía de Tierras non condivide questa tesi, "abbiamo i documenti originali che provano la totale legittimità del possesso delle terre", dice l'ufficio stampa Benetton. C’è da dire che non è la prima volta che in Patagonia, il gruppo Benetton, è al centro di polemiche e contestazioni. Mauro Millán, portavoce della comunità Mapuche, ha denunciato poco tempo fa presunte irregolarità della Compañía de Tierras nella gestione del personale (260 assunti, 100 nella società partecipata Cosulan, più 340 nell'indotto). "C'è la testimonianza di un lavoratore", sostiene Millàn, "che inizia alle quattro del mattino e finisce quando cala il sole" (da un articolo del 3 ottobre 2004, su l’Espresso di Riccardo Bocca).
La Compañía risponde di non aver mai avuto significative controversie con i suoi lavoratori, come dimostra l'altissima fidelizzazione del lavoro. Il che, in sostanza, significa che nessun dipendente si è mai messo contro di loro anche perché "di lavoro da quelle parti ce n'è poco, e quel poco lo dà la Compañía", come dichiara candidamente il loro ufficio stampa. I Mapuche rispondono, sempre con il loro portavoce e avvocato Millàn:“Nella nostra storia abbiamo vissuto tre invasioni; la prima da parte degli spagnoli, la seconda quando si formarono gli stati di Argentina e Cile con la creazione delle frontiere nelle quali non ci riconosciamo dato che il nostro popolo ha vissuto da sempre in un territorio che si estende tra Cile e Argentina, la terza, negli ultimi anni, con l'invasione delle multinazionali che si stanno spartendo il territorio. Consumando un saccheggio dove gli stati non sono neppure soci, solo strumenti che attraverso il varo di leggi permettono la spoliazione delle risorse. Oggi le multinazionali sono come una enorme macchina con tante facce: la faccia degli idrocarburi, quella delle risorse idriche, quella del gas ... Molti colori, come Benetton. E si trovano a fronteggiare un popolo che solo vuole continuare a sviluppare la propria cultura e di poter onorare la terra dei loro antenati. La resistenza non è gratuita, la lotta non è comoda. Facciamo i conti con l'emarginazione, la disoccupazione, l'impossibilità di poter mantenere assieme la propria famiglia, con la paura. In Cile i nostri fratelli vengono anche imprigionati ed uccisi. Questa nostra lotta non è egoista, non è solo per noi che siamo qui: le multinazionali pregiudicheranno non soltanto ai Mapuche ma alla società tutta” (Mauro Millàn da http://italy.peacelink.org/). I Mapuche non sono “né cileni né argentini, né neuquinos né chubutenses”, come amano ripetere, “sono Mapuche, popolo della terra”; e su quella terra essi vivono in armonia da migliaia di anni, da sempre. I loro padri trasformarono in “legge” ogni manifestazione della vita e da questa visione ebbe origine l’Admapu, l’insieme delle leggi che regolano il comportamento dell’uomo, nella sua incessante interazione con la natura, in uno spazio territoriale determinato, che essi chiamano Wallmapu. L’essere parte di quell’universo e non padroni di esso, è il principio fondamentale nella cosmovisione del popolo Mapuche, è ovvio che in quella comunità non ci sia spazio per il concetto di “proprietà privata”come fattore di produzione, ma solo per i valori della solidarietà, della condivisione e della reciprocità in un’organizzazione sociale pienamente orizzontale.
A questo punto, inquadrare la controversia anche da un punto di vista internazionale, può essere utile. Il diritto dei popoli indigeni alla proprietà della loro terra, è sancito infatti dalla Convenzione 169 dell'Organizzazione Internazionale del lavoro (OIL). Tale convenzione, rappresenta la normativa internazionale più completa che esista oggi sui popoli tribali, ed è stata adottata anche dall'Argentina nel 2001. Di conseguenza, sia secondo il diritto internazionale sia secondo il diritto interno, i Mapuche sono i legittimi proprietari delle loro terre e ogni espropriazione è un atto illegale. I diritti collettivi, costituiscono un diritto fondamentale per almeno 150 milioni di persone e sono sanciti, non solo dalla Convenzione OIL 169, ma anche dal Patto Internazionale per i Diritti Civili e Politici, che tra l'altro recita: "Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di tale diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale" (Da http://survival-international.org/it/mapuche-benetton.htm).
La vicenda Mapuche – Benetton, ultimamente, ha avuto fortunatamente un forte impatto mediatico, anche grazie agli appelli lanciati dal premio Nobel per la pace Adolfo Pèrez Esquivel. Credo sia molto esplicativo riportare lo scambio di lettere che c’è stato nel 2004 tra Esquivel e Luciano Benetton: "Riceva il mio saluto di Pace e Bene. Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere la terra ai fratelli Mapuche, nella provincia di Chubut, nella Patagonia Argentina. Vorrei ricordarle che Mapuche significa Uomo della Terra e che esiste una comunione profonda tra la nostra Pachamama, " la Madre Terra", e i suoi figli. Tra le braccia di Pachamama ci sono le generazioni che vissero e che riposano nei tempi della memoria. Deve sapere che quando si toglie la terra ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all'oblio. Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perchè sono i legittimi proprietari, di generazione in generazione, sebbene non siano in possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida a coloro che hanno denaro. É difficile capire quello che dico, se non si sa ascoltare il silenzio, se non si è in grado di recepire la sua voce e l'armonia dell'universo che è una delle cose più semplici della vita. Qualcosa che il denaro non potrà mai comperare. Quando giunsero i conquistatori, gli "huincas" (i bianchi), massacrarono migliaia di popoli "con i loro pali di fuoco" perpetrando etnocidio per appropriarsi della loro ricchezza e rubando loro terra e vita. Purtroppo questo saccheggio continua fino a oggi. Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila ettari di terra in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa mentalità dei conquistatori; non ha bisogno di armi per raggiungere i suoi obiettivi ma uccide, con la stessa forma, usando il denaro. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale. Vorrei dirle che Lei ha tolto, con la complicità di un giudice ingiusto, 385 ettari di terra, con la armi del denaro, a un'umile famiglia Mapuche con una dignità, un cuore, una vita; loro sono Atilio Curiñanco e Rosa Nahuelquir proprietari legittimi da sempre, per nascita e per diritto dei loro padri. Vorrei farle una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra a Dio? Lei sa che la sua fabbrica dagli abitanti del luogo è chiamata "la gabbia", cinta con fil di ferro, che ha rinchiuso i venti, le nubi, le stelle, il sole e la luna. E' scomparsa la vita perchè tutto si riduce al mero valore economico e non all'armonia con la Madre Terra. Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione e di potere dei loro latifondi. A Treviso, quel bel paese nel nord Italia, dove Lei ha il centro delle sue attività, non so quello che pensano i cittadini e le cittadine riguardo alle sue azioni. Spero che reagiscano con senso critico e pretendano che Lei agisca con dignità e restituisca questi 385 ettari ai legittimi proprietari. Sarebbe un gesto di grandezza morale e le assicuro che riceverebbe molto di più che la Terra: la grande ricchezza dell'amicizia che il denaro non potrà mai comprare. Le chiedo, signor Benetton, che viaggi in Patagonia e che incontri i fratelli Mapuche e che divida con loro il silenzio, gli sguardi e le stelle. Credo che il luogo che con la sua presenza chiamano "La gabbia", verrebbe chiamata "L'amico" e la gente di Treviso sarebbe onorata di avere nel suo paese una persona con il cuore aperto alla comprensione e alla solidarietà. La decisione è sua. Se decide di restituire la terra ai fratelli Mapuche mi impegno ad accompagnarla e dividere con Lei e ascoltare la voce del silenzio e del cuore. Tutti siamo di passaggio nella vita, quando arriviamo siamo in realtà in partenza e non possiamo portare niente con noi. Possiamo, però, lasciare al nostro passare le mani piene di speranza per costruire un mondo più giusto e fraterno per tutti. Che la Pace e il Bene la illumini e le permettano di trovare il coraggio per correggere i suoi errori".
Luciano Benetton risponde: "Gentile signor Pérez Esquivel, ringraziandola per la sua lettera, franca e diretta, le rispondo subito che sono disponibile a incontrarla per aprire un confronto sul tema delle terre in Patagonia. Confronto che dovremmo estendere anche agli altri proprietari terrieri e ai rappresentanti del governo argentino. Sono convinto che un civile dialogo tra le parti rappresenti l’unica strada per comporre le molteplici posizioni e le differenti opinioni. A maggior ragione se si tratta di un tema complesso come quello delle terre patagoniche, che presenta complicati risvolti storici, sociali ed economici. Che coinvolge i diritti spesso contrastanti di numerosi gruppi etnici diversi, oltre che due governi sudamericani. Che propone interrogativi morali e filosofici antichi quanto il mondo. Chiedendomi "Chi ha comprato la terra a Dio?", lei riapre un dibattito sul diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento stesso della società civile.
Ma se si accetta il principio che la proprietà è necessaria, si può ben discutere se sia necessario o meno che resti sempre nelle stesse mani. Da parte mia credo che nel mondo terreno e ormai globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e il miglioramento degli altri. A questo proposito mi permetta di riassumerle, al di là delle forzate interpretazioni ideologiche e delle implicazioni di immagine, qual è nel merito la posizione del nostro gruppo, che è una posizione di imprenditorialità e passione. La Compañia de Tierras Sud Argentino, attiva dal 1891, è stata acquistata da parte di Edizione Holding (la finanziaria della famiglia Benetton) da tre famiglie argentine nel 1991. La nostra era, ed è tuttora, una sfida di sviluppo: trasformare questa azienda storica, con più di 100 anni di tradizione ma ormai decaduta, formata in gran parte da terre desertiche e inospitali, in una impresa agricola dedicata in particolare all’allevamento delle pecore ed altre attività agricole. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito per portare l’azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti. I risultati fin qui ottenuti sono positivi, certo non dal punto di vista degli utili, ma sicuramente per il livello di qualità raggiunto nell’allevamento ovino e per la crescita occupazionale nell’area. Del resto, più in generale, non penso che scoraggiare gli investimenti degli imprenditori possa rappresentare una politica alla lunga redditizia, per l’Argentina come per qualsiasi altro Paese che voglia guardare a ragionevoli obiettivi di crescita, specie in un momento così delicato per l’economia internazionale. Per questa serie di motivi, mi creda, appare quanto meno ingeneroso descrivere le tenute argentine di Edizione Holding come latifondi medioevali improduttivi, e noi come signori feudali. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro. E, nel contempo, essere aperti a ciò che l’esperienza e il rapporto con il mondo possono insegnarci. Con la consapevolezza dolorosa ma realistica, da lei stesso ricordata, che niente possiamo portare con noi alla fine del viaggio. Ma nella ferma convinzione che sia il viaggio stesso - le cose viste e fatte, i rapporti umani, le strade percorse, gli obiettivi pensati e raggiunti - a rappresentare il nostro capitale più prezioso” (da Latinoamerica, rivista trimestrale, n.3 del 2004, GME Produzioni, Roma).
Suggerire, come afferma Benetton, che "la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può costruirla con la competenza e il lavoro" è un’offesa verso tutti quei popoli che hanno abitato le loro terre per generazioni. Ritenere che le popolazioni indigene non riescano a utilizzare le loro risorse, dimostra una totale mancanza di conoscenza del loro stile di vita, oltre ché presunzione e arroganza. Se la Patagonia riesce a far provare a Luciano Benetton quello "straordinario senso di libertà", certamente è anche perché per i Mapuche, "la terra non è un'eredità dei nostri padri, ma un prestito dei nostri figli", da proteggere e curare con sapienza. Benetton aggiunge anche che "il diritto di proprietà rappresenta il fondamento stesso della società civile". Dobbiamo forse intendere che siano "incivili" le società non fondate sulla proprietà? Ignorare i diritti collettivi dei Mapuche, o di qualunque popolo, esaltando l'importanza della proprietà privata o la necessità di promuovere il proprio modello di sviluppo, significa ricorrere agli stessi argomenti e alle stesse armi ideologiche, che le società coloniali hanno usato per centinaia di anni per privare quegli stessi popoli delle loro terre e dei loro diritti, condannandoli alla perdita della loro autosufficienza, della loro cultura e della loro identità. E a nulla vale regalare alla città di Leleque un museo "per raccontare la cultura e la storia di una terra mitica" come ha fatto Benetton, perché i popoli indigeni non sono reperti archeologici, residui del passato destinati all'estinzione, bensì, come loro stessi affermano, "uomini, donne e bambini in carne ed ossa, con una nostra dignità, una nostra lingua, religione, legge... determinati a scrivere e a organizzarci per difendere tutto ciò da chi vuole continuare a toglierci ciò che è nostro" [dal testo introduttivo di Unidad Indigena, un giornale indigeno indipendente fondato nel 1975 in Colombia].
Il problema, va ben oltre i confini della Patagonia. In un momento in cui tutta la comunità internazionale dibatte sulla necessità di promuovere uno sviluppo sostenibile per il futuro stesso del pianeta nel rispetto dei diritti umani, la United Colors dovrebbe riflettere sul fatto che fare impresa e produrre in un “altro modo” è possibile.
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