Horacio Verbitsky, Il volo, Feltrinelli, Milano 1996.
“[..] si renderà conto che abbiamo fatto cose peggiori dei nazisti.” Con queste agghiaccianti parole si apre la confessione del capitano della Marina militare argentina, Adolfo Scilingo, al giornalista Horacio Verbitsky. Dopo quasi vent’anni di silenzio, sopraffatto dall’insostenibilità del ricordo, Scilingo decide di raccontare come, nel 1976, iniziò il più terrificante genocidio della storia dell’Argentina, portando alla sparizione di oltre trentamila persone. Scilingo cerca Verbitsky, noto per la sua serietà, capacità ed intransigenza, per svelargli le dinamiche pratiche del modo in cui per due anni, ogni mercoledì, dalla base militare della Scuola di meccanica della Marina, aerei carichi di supposti oppositori del regime, si levavano in volo diretti verso la foce del Rio de la Plata; migliaia di persone, prima torturate e poi narcotizzate, venivano lanciate in mare ancora vive.
Un durissimo atto d’accusa contro chi partecipò al terrorismo di stato in un paese dove, a distanza di anni i responsabili di questa strage sono ancora in libertà.
Lo stesso giudice Gabriel Cavallo ha definito Il volo: “un punto decisivo nella investigazione dei crimini commessi dalla dittatura e nella sua persecuzione penale. Grazie a questa opera sono nati impulsi e volontà di ricerca della verità che hanno avuto importanza vitale per aprire una breccia nel cerchio di impunità determinato dalla leggi del Punto final, di Obediencia debida e dagli indulti.”
È un’opera insostituibile per comprendere la storia argentina contemporanea e ha costituito uno degli elementi probatori fondamentali di cui si è avvalso il giudice spagnolo Baltasar Garzon nella sua battaglia legale contro i militari argentini.
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