Bellezza e dolore nella banalità del male: poietici ritratti


L’artista, il vero artista, deve guardare sotto l’esteriorità. Il suo dono più prezioso, ma spesso
anche il più doloroso, è quello di vedere l’anima interiore e,
grazie a un potere che nemmeno lui saprebbe definire,
farla rifulgere o oscurarsi nella tela, attraverso sguardi
che esprimono pensieri e sentimenti di anni.

(N. Hawthoorne, Ritratti periferici)


Quando da parte dell’avvocato Marcello Gentili mi è giunto un plico con “alcuni suggerimenti” e le citazioni, pagine e pagine riprese dai testi poetici e filosofici di alcuni dei personaggi da lui ritratti, ho pensato immediatamente di trovarmi, al solo sfogliare i testi insieme alle immagini del catalogo, di fronte ad una “poietica arte”. Vasta, un’arte molto vasta come era immaginabile, se ci si accinge a partire sia dalle opere, sia dall’operato dell’artista e avvocato Gentili. Ho pensato ad una vita dedicata al giusto e al bello, una tenace linea tracciata sull’antico concetto di “kalòs kai agàtos”, dove il bello e il giusto s’incontrano lungo una ricerca improntata ad una vera etica.
Le citazioni del maestro si riferiscono sia ai poeti ritratti, sia ai filosofi, che ai pensatori e ai mistici, unendoli con un filo svolto ben oltre la poesia comunemente intesa, il supporto e il mezzo diventano gli elementi fondanti di questo che andavo guardando come un vero e proprio capitolo del pensiero del maestro, ben consapevole della limitatezza di una qualsiasi locuzione che lo nominasse e gli desse un titolo. Il poeta, denominazione che deriva dal verbo greco poieo, il cui significato letterale è "fare" e il cui valore dei testi va al di là del vero significato delle parole, coinvolge aspetti fonetici e musicali, attraverso un linguaggio che spesso si presta a varie interpretazioni e può suscitare forti emozioni. Perciò in senso lato si suole definire poeta chiunque, artista o no, manifesti questa capacità nelle proprie opere o anche soltanto nel proprio modo di comunicare, contando che i primi poeti declamavano le loro opere oralmente, accompagnandosi con la musica, come già in Omero. In questa unione suggerita d’immagini e di colte citazioni, mi sono imbattuta con meraviglia in una nuova forma, in una silenziosa “poesia ritratta”, soli termini che trovo per spiegare il senso di vertigine suscitatomi dal prezioso plico, dove era stata riposta la ricerca di una vita improntata all’osservazione, unico strumento indispensabile per costruire Memoria, Verità e Giustizia.
Ho pensato allora a quello che diceva Walter Benjamin nella Piccola storia della fotografia a proposito del modo in cui siamo colpiti da certi ritratti e dall’idea che dietro quell’immagine ci sia una storia vera e di vita, a come possa prodursi una strana vertigine in chi osserva un ritratto pensandolo come tale, senza conoscere nulla del soggetto ritratto, qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige un nome, quello di colei o di colui che lì ha vissuto e che forse non potrà mai risolversi totalmente in arte. Questo la prima suggestione alla vista di un’ipotetica galleria all’interno di quella dei magnifici disegni in esposizione. Sappiamo che l’impulso al ritratto è un fatto spontaneo e primordiale e si manifesta nella maniera più ingenua assegnando un nome a un’immagine generica, o un’immagine aniconica a un nome. È questa del resto una particolare variante del motivo ricorrente del ‘ritratto rivelatore’, che è in grado di mostrare al di là di ogni possibile astuzia dissimulatoria, l’anima vera di un uomo. E che ciò possa avvenire, non solo attraverso l’arte lenta e sapiente della pittura, ma ancor più attraverso quella scattante ed espressiva del disegno o quella meccanico-digitale della fotografia, per quel che di magico vi si nasconde, è cosa molto significativa in questa micro galleria del maestro Gentili.

Non ho potuto fare a meno di pensare anche alla propriocezione dell’artista, in relazione all’oggetto raffigurato, di come sostanzialmente ci troviamo di fronte ad una ritrattistica dell’anima, sorta di radiografia densa e pastosa, capace di alienare il proprio sé trasportandolo nel mondo altro da sé, di restituirlo alla storia. In qualche modo ho pensato che più che di ritratti si trattasse di autoritratti del proprio “tocco” poetico, che non necessariamente dimora nella musicalità, ma anche nel silenzio del gesto. Nel tratto pittorico intento a graffiare la superficie, in questo caso una superficie che parla dell’effimera quotidiana notizia, che Gentili vuole trasformare ed eternare, in una strenua ‘lotta contro l’amnesia e l’indifferenza’, ho ravvisato anche la possibilità d’appoggiarmi ad una linea teorica sull’autoritratto. Omar Calabrese in uno dei suoi migliori e più recenti studi sull’autoritratto, afferma che questo tipo d’immagine permette all’artista di dimostrare “una presa di possesso materiale ma soprattutto teorica: riconoscimento dell’autore in quanto autore empirico, ma anche definizione dell’autore in quanto entità astratta”. La mano parlante dell’autoritratto conduce “alla mobilità del protagonista, che comincia a “parlare” con i gesti […] L’autoritratto si fa sempre di più racconto, e consente al protagonista di parlare di sé parlando del dipinto che lo rappresenta” .
Il percorso indicato da Marcello Gentili conduce infatti a ritmo narrativo in un magnifico viaggio di “storie poietiche”, già cariche di poetiche, di storie dentro la Storia. La poesia, un evento accidentale, un dassein, una ricerca di datità, nella propria, in quella della propria anima e in quella collettiva, dell’anima della propria collettività, e nella collettività. La poesia, nel silenzio di questo gesto, è suscitata dalla ricerca di datità nella chiara consapevolezza dell’esser-ci, come evento effimero ed eterno, nell’eterno rapporto dialogico dell’immagine/verbo.
Trovo finalmente che: “l’arte si fa con le mani. Esse sono lo strumento della creazione, ma prima di tutto l’organo della conoscenza” , come sintetizzò Focillon in una frase del suo raffinato e fondamentale Elogio della mano. Focillon, che appartiene ancora a quella tradizione critica incline ad indagare il potenziale creativo della relazione tra i due linguaggi, quello visivo e quello linguistico, che aveva avuto origine almeno con le correspondances baudelairiane, e che si era affermata in seguito, con le poetiche simboliste, distilla concettualmente questa relazione tra segno e senso ponendola alla base del poiein, insieme a Paul Valéry, che la sperimenta su di sé, tanto che i suoi carnets costituiscono una sterminata opera polisemica. Alla base di questo fenomeno c’è naturalmente la convinzione che l’attività disegnativa, l’espressione grafica condotta dalla mano, sia una vera e propria forma di “estensione della mente”. Focillon facendo ampio ricorso al meccanismo dell’analogia, che come si sa attiva il topos dell’equivalenza, ricorrente da sempre nella prosa degli storici dell’arte, dice: “la spinta all’analogia deriva dalla coscienza della ‘metaforicità’ dell’opera d’arte, del suo potere di suggerire di più di quanto apparentemente esprima” , fa sì che le figure retoriche basate sull’equivalenza rappresentino la spia del concetto di relazione, che si può supporre siano alla base anche del percorso del maestro Gentili.
L’analogia indica l’urgenza di operare una trasformazione formale, di intervenire attivamente nella sostanza dell’opera d’arte di cui si è spettatore, vivificandola attraverso il proprio linguaggio verbale. La retorica analogica è cioè il tentativo più raffinato del linguaggio, teso a decriptare l’essenza di un’immagine. Si coglie così il nesso tra scrittura e disegno. Tale pensiero sembra infatti sostenere il maestro nel suo costrutto poetico-filosofico e in quello pittorico. Le due attività sono come le due facce di una stessa unità poetica, ma anche concettuale. Ciò che le salda è la mano. La mano, che con Focillon, e poi con Barthes, fulcro del processo creativo, che ha al suo cuore la tecne, è a sua volta una forma di intelligenza. Senza le mani, senza l’atto dell’artista, l’arte non ha destino, è condannata al silenzio della pura idea: questo l’appello del plico che ho ricevuto dal maestro Gentili.
Il disegno diventa quindi una vera e propria “forma visiva della conoscenza”. Mallarmé fu tra i primi a sperimentare i giochi dell’interazione tra significante e significato, tra sonorità della parola e simbolo grafico, risolvendoli in un deciso affrancamento della forma dal significato, considerò che le parole avessero abbastanza forza per resistere all’aggressione delle idee: vero esperimento poetico-tipografico, ma non è questo il senso che cerca Marcello Gentili. Il processo pare invece da lui giocato in modo da penetrare in quell’universo dell’arte del reale, che per l’autore conserva sempre un grado di affascinante mistero. Il disegno diventa qui un parler peinture beaudelairiano, che secondo Ezio Raimondi ha al suo cuore il meccanismo della “riflessione”. Proseguendo con “metodo genealogico”, espresso in Vita delle forme da Focillon, con l’ esplorazione à rebours delle opere d’arte, scopriamo che Gentili ha con l’artista altro/poeta un meccanismo d’identificazione, e che nel segno ricostruisce il processo di creazione, ripercorrendone idealmente ma anche materialmente le tappe di realizzazione, dal dessein al dessin. Infatti, in quanto tecnica caratterizzata da un continuum di segni grafici, pittorici e pastosi per la scelta del materiale, che a volte va a ricoprire completamente la superficie pittorica facendola diventare altro, a volte dialoga con la superficie già densamente segnica, i disegni sui giornali di Gentili riescono a palesare il gradiente temporale dell'opera, una ricerca sul “farsi” dell’opera d’arte, dove la mano renda viva un’idea “tante volte” espressa con le parole. In questo “tante volte”, si riavvia costantemente quel procedimento analogico subito individuato alla lettura e allo svolgersi del plico ricevuto. Un dono.
Processo analogico che era inevitabile combinare in coppie dialoganti, non necessariamente un palco di figure recitanti, quanto di figure stagliate lungo una galleria luminosa, a cui, ritratti di ritratti dell’anima, sia stata tolta la cornice, come è ribadito chiaramente, non un caso, nella poetica della prima poeta citata, Amelia Rosselli. Secondo Daniele Barbieri, semiologo ed esperto di ritmo nel testo poetico, il verso di Amelia Rosselli, “finisce per essere un non-verso e il tramite di un’espressione iperpoetica o iperlirica” . Lei opera una neutralizzazione del verso attraverso una sorta di dimenticanza del canone metrico, “che risulta simile all’effetto che ha in grafica la neutralizzazione dell’effetto cornice, quando si stampano immagini al vivo, tagliate cioè direttamente dal bordo della pagina” . L’immagine al vivo offre paradossalmente un frammento di realtà, allo stesso modo del taglio del verso che le poesie di Rosselli suggeriscono come messa a nudo di una parte del suo flusso di coscienza. Un’ulteriore analogia, che ci permette di effettuare il salto dai due generi artistici, il verbale e il visivo, in direzione di un specifico effetto iperlirico. E se questi possono essere considerati ritratti di anime, di un’anima già collettiva, l’iperliricità, che vibra nel segno grafico, diventa, seguendo la traccia di Barbieri, immediatamente un’epica. Nella fattispecie in Gentili l’iperlirica dei suoi ritratti poetici diventa un’epica del reale, la ritrattistica dell’anima poetica s’inserisce così pienamente in una galleria poietica di ritratti, già contraddistinta e i suoi diventano ritratti più che poetici, poietici.
Questa la vertigine provata all’analisi del binomio artistico del maestro Gentili, su cui ho ritagliato delle locuzioni significative che per ogni personaggio ritratto sintetizzassero la suggestione appresa, così per la prima coppia, Amelia Rosselli e Alda Merini, due poete tra le altre raffigurate che sta a dire dell’interesse del maestro Gentili per la poesia delle donne, anche quella che manifesta il disagio, il superamento di certe soglie, la sfida verso ostilità e incomprensione, mobilitando quanto col cuore e con il corpo va oltre la mente: “Lente scalinate / Versi del corpo d’amore”. Poi la l’elaborata spiritualità di Cristina Campo a confronto del lenzuolo che diventa libro, tra le mani di Clelia Marchi, unite dal senso dell’oscurità: “La ritualizzazione della parola si arma / Nel buio ad occhi aperti”. A seguire Giovanni della Croce, uno dei più grandi poeti spagnoli, fondatore dei Carmelitani scalzi, che accompagna Maria Maddalena de’ Pazzi, la mistica veggente che trasmise oralmente le sue visioni alle Sorelle: “Oscurità dell’anima / Luce nella genealogia dell’estasi”. E Silesio, mistico e poeta che sintetizza nell’epigramma, in distici, i risultati della meditazione, affiancato a Simone Weil, nel suo tormento per la necessità e la forma perfetta, con l’individuazione della percezione come presa di posizione per l’alterità del mondo : “Parola viva di Verità / Percezione dei Portali”. Ingeborg Bachman, con la sua prosa lirica, da Il trentesimo anno, inevitabilmente accompagnata dalle razionalissime riflessioni linguistiche di Ludwig Wittgenstein: “Ondine è tornata / A esprimere l’inesprimibile (a colui che l’ha tradita)”.
Hannah Arendt infine resta sola a dire di “Bellezza / Dolore nella banalità del Male”, riportando la micro galleria a contesto ipereale: il titolo originale della suo opera più famosa è infatti Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil e fu invertito, non senza ragione. L’editore italiano ritenne opportuna questa modifica: dal dibattimento in aula infatti Arendt aveva ricavato l'idea che il male perpetrato da Eichmann, come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah, fosse dovuto non ad un'indole maligna, ben radicata nell'anima (come aveva sostenuto nel suo Le origini del totalitarismo) quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Una conclusione molto severa da parte del maestro Gentili, per un percorso che attraversa generi, poetiche, lirismi, fino al misticismo più estremo, ricadendo, dopo una sorta d’illuminazione, una luce semantica appoggiata all’immagine, alla Memoria come fonte indispensabile per una vera via d’uscita dal Nichilismo. Una lezione che merita d’essere approfondita.

Per suggellare, un omaggio in risposta al dono ricevuto, ho scritto le frasi come fossero distici, in fondo sono estrapolate dal pensiero dei personaggi ritratti e citati, raccordando le “locuzioni poietiche” che mi sono state suggerite. Per non dimenticarle, al fine di poter continuare a camminare in questa lotta contro “l’amnesia e l’indifferenza dell’effimera notizia”.

Lente scalinate a risalire
I versi di un corpo d’amore.

Mentre la ritualizzazione della parola s’ arma
Nel buio, ad occhi aperti,

L’Oscurità dell’anima è
Luce nella genealogia dell’estasi.

La Parola viva in Verità, come
Percezione dei Portali,

Perché Ondine è tornata
A esprimere l’inesprimibile (a colui che l’ha tradita).

Con Bellezza e (contro) il
Dolore nella banalità del Male.

Patrizia Dughero